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Lady In The Water

Recensione: Lady In The Water

Come molti cinefili sanno, amare un regista significa seguirlo, comprenderlo segretamente anche quando sottilmente ci delude o non si conferma.

SCHEDA TECNICA

SCHEDA DVDA volte lo si ama indipendentemente dalla propria volontà razionale o dal proprio giudizio di gusto, ma solo perché è stato in grado di iscriversi così in profondità nella nostra pelle che non riusciamo più a distinguere l’emozione che ci suscitò al primo incontro, da quelle che non ci suscita più, e che sono una eco sbiadita, un atto d’amore ripetuto, un reflusso di quella grande, magari unica suggestione, che ci ha incollato a lui per sempre.  Io amo Lynch per sempre e da sempre, a causa dell’indelebile traccia disturbata che ha lasciato in me Twin Peaks quando avevo solo undici anni, e amo Shyamalan per come ha rappresentato un’idea di paura in Il Sesto Senso. I film successivi a quel capolavoro non sono più stati all’altezza del “masterpiece” iniziale, ma hanno trattenuto uno stile che di fatto mi ha permesso di volta in volta di rivivere quell’emozione primaria: le riprese di spalle, la telecamera che non riesce a darci la visione d’insieme dell’ambiente, e ci lascia vulnerabili e all’oscuro di quanto accade intorno a noi. Il territorio ci si ribella, i nostri occhi ci ingannano e all’improvviso ci rivelano che non abbiamo visto tutto, che un particolare ci è sfuggito o ci sfugge (ricordate l’inquadratura della donna  morta dietro il finestrino dell’auto della madre del piccolo Osmet ne ”Il Sesto Senso?
O l’alieno che cammina felpato tra i partecipanti al barbecue in Signs?). Shyalaman non ci avvisa, non ci permette di metterci al riparo dall’orrore e non usa musiche dall’effetto anticipatore, come in ogni horror che si rispetti. Il panico ti agghiaccia e non puoi sfuggirgli, perché ti sorprende e ti impone una fragilità, ti spoglia della forza fisica che non serve a nulla, ti dimostra che, qualora nella vita tu vivessi qualcosa di simile, non ci sarebbe alcuna musica ad avvisarti e saresti solo, nel  dilatato silenzio  della durata.
Lady in the Water non rispetta praticamente più gli schemi dei film precedenti.
Non c’è praticamente più traccia del pathos ansiogeno de Il Sesto Senso. Sembra che il regista abbia vissuto una sorta di escalation all’incontrario: partito dall’acme è via via scemata la forza e la tensione della sua opera. Fino a qui.
Fino a “Lady in the Water” che merita una menzione speciale forse solo per il suo straordinario compositore James Newton Howard, (un habituè di Shyamalan) che con la forza drammatica del suo tema sostiene i momenti più emozionanti del film, ne costruisce l’impalcatura emotiva, che regge e strappa qualche lacrima (almeno a me).
Il film si impone per la volontà di  far sognare, di credere alle favole che potrebbero salvarci, peccato che il primo a non crederci fino in fondo sembra sia proprio Shyamalan, che struttura la sua opera in modo a tratti didattico, didascalico e iperspiegato, (la storia della Narf, ninfa del mare, viene illustrata in alcuni step, più simili alle unit dei libri d’inglese che ai passaggi di un film)  a tratti confuso, farfugliante, ebbro.
L’opera abdica suggestioni, magnetismi e evocazioni a vantaggio di un meccanismo rigido, incagliato e stridente, e non basta il sempre bravo Giamatti ad oleare di sogno un congegno che non ha fiducia nella capacità dello spettatore di abbandonarsi alle “fairy tales”.
Sembra che Shyamalan non abbia chiaro da che parte stare e a che genere rifarsi, al fantasy, all’horror, alla commedia corale, al romanzo di formazione, e quando dico che non sa da che parte stare non voglio dire che mescola tutti questi generi, ma che non ne sposa nessuno in modo convincente, e consegna la sua  fairy tale all’imperfezione, riproponendoci quel senso di incompiutezza già sentito in Unbreakable. Il primo tempo è debole, diluito (sarà un effetto collaterale delle storie sull’acqua, vedi H2Odio?
), lento. I personaggi (i molti condomini dello stabile che ospita la Narf) sono disegnati con tratti fugaci e confusi, e alcuni rimarranno sullo sfondo come macchiette, pur rivestendo ruoli chiave ai fini dello snodo conclusivo (vedi il culturista che allena una parte sola del corpo).
Difficile seguire le intenzioni del racconto: nella prima parte del primo tempo sembra che il motore dell’azione sia l’arrivo della ninfa, destinata a cambiare la vita dello squallido Paul Giamatti, portiere tuttofare con un passato doloroso. In seguito l’attenzione si sposta alla ricerca del condomino scrittore, il vero destinatario dell’azione della Narf, e ci sembra che quello sia il nocciolo del film, l’azione che lo muoverà. Poi lo scrittore lo troviamo (interpretato da Shyamalan in persona) in tempi relativamente brevi, e all’avvicinarsi del secondo tempo lo scopo del film si modifica di nuovo e sembra essere quello di aiutare la Narf a rincasare.
Poi pare che il senso del film risieda nella capacità dei condomini di costituirsi come gruppo, poi no Tutto è frammentato, spezzato, interrotto.
Non si capisce quale sia il punto da cui si parte perché varia in continuazione, né dove si vuole arrivare. Il secondo tempo si fa più denso e meno stemperato, ma manca di incisività e si stenta ancora a intuire “la morale della favola” che verrà infine (finalmente!)  spiegata con infantile chiarezza: tutti abbiamo uno scopo nella vita e riconoscerlo non è semplice, si incappa in errori e in distorte visioni di noi stessi; a volte il ruolo che ci siamo scelti non ci rappresenta, e rischiamo di morire senza conoscere mai il perché e il per cosa della nostra venuta (vedi il critico cinematografico, tutto preso a smontare i congegni narrativi delle storie che guarda, morirà illustrando la sua fine come fosse la scena di un film in cui a morire è qualcun altro, e fino all’ultimo non si conoscerà per chi lui è davvero, e rimarrà l’unico condomino senza ruolo.)Shyalaman si regala una collocazione importante: lo scrittore bloccato che grazie all’incontro con la Narf scioglie la sua mano e scrive un libro che avrà grandi conseguenze sull’umanità.
Va segnalato che il buon M. Night sta meglio dietro la macchina da presa che davanti. Detto ciò il film può anche emozionare, sono persino coinvolgenti e toccanti le ultime sequenze in cui questo sparuto e improbabile gruppo di persone lievemente “ai margini” dell’esistenza si unisce per prendere parte a un disegno grande e ambizioso: aiutare la Narf Story (Bryce Dallas Howard) a tornare nel suo Mondo Azzurro, il mondo delle fiabe da cui ogni tanto si allontana per consentire il “risveglio del c
uore” di qualche persona indurita dalla vita. C’è della poesia, dell’ingenuità, una pulita bellezza che stenta però ad impossessarsi dell’animo dello spettatore, spesso distratto da un “parlarsi addosso” della caracollante sceneggiatura che ostacola il fluire del sogno, lo scrolla, lo spiega. Bisogna credere nelle favole, e le favole si raccontano, non si spiegano. Perché, Shyamalan, non hai creduto nella favola che ci hai raccontato?
Perché non ti sei fidato della capacità dei tuoi spettatori di tornare bambini?
Perché, ancora una volta, ci hai offerto un lavoro a metà?
Lady In The Water: incompiuto e confuso; per chi ama Shyamalan nonostante se stesso

Nota: di Roberta Monno
Lady In The Water

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